Marinai di Terraferma

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 Oggetto del messaggio: i pigrotti del tiki: crociera 2013 parte V
MessaggioInviato: 14/11/2013, 0:13 
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- il giorno più lungo
La mattina successiva mi alzo che è ancora buio. Sento la bora fischiare tra le cime degli alberi, ma dobbiamo muoverci. Tutti dormono e io oramai ho imparato a muovermi da solo in barca, anticipando ogni manovra e preparandomela per tempo. L'ormeggio è stato pensato per poter essere abbandonato facilmente. Sciolgo le cime a terra e recupero i doppini filati in acqua, poi tonneggio la barca sull'ancora, che mi fa uscire lentamente dalla baia e che intraversa la barca. A quel punto basta dare motore e virare per evitare le altre barche ancora immerse nel sonno, alla fonda. Col motore al minimo valuto quanto carburante ho nel serbatoio. So che il prossimo benzinaio è solo a Cres e che in queste isole disabitate è difficile trovare qualcuno disposto a vendere 5 litri di preziosa benzina. Preparo la randa e il fiocco piccolo, lego il timone e isso velocemente le vele. Subito la barca prende il vento e risale con un bordo che ci discosta dall'isola di Losinj. Intravedo lo stretto corridoio che si infila tra Cres e la costa dell'Istria e noi proprio di lì dovremo passare. Nell'aria buia della mattina, fa un po' paura quel passaggio, che immagino per niente invitante con mare formato e vento sostenuto. Davanti a noi c'è Unje, ma per quanto mi sforzi, faccio fatica a stringere abbastanza per lasciarla sottovento. Il catamarano procede verso nord, e devo rizzare tutto quello che c'è in coperta, perché il mare, a tratti, spazza le terrazze e le onde fanno sbattere le prue che schizzano l'acqua in quadrato. Non è un'andatura piacevole, ma devo tener duro. I bambini sono svegli, ma consiglio a Violanda di rimanere sotto coperta con Emir. Anche Yanez mette fuori la testa dalla cabina, ma Maya lo trattiene sotto. Valuto se bordeggiare per aggirare lo scoglio di Sraskane sottovento e trovare un riparo. La costa di Losinj oramai si è allontanata a est. Il vecchio di ieri ci aveva raccomandato di navigare sotto costa, ma è impossibile bordeggiare vicino all'isola, tanto più che il vento, vicino alla costa, rimbalza e cade dall'alto e andare a vela non è per niente facile. Non abbiamo sufficiente benzina per risalire fino a Cres a motore, per cui questa mi sembra l'unica soluzione. Forzo ancora un po' l'andatura contro il mare, finché Volanda urla che non riesce più a tenere Emir in cabina e che sotto si sta male da cani. So come si sta in cabina con mare formato. Valuto al volo la situazione. A poppavia c'è Ilovik, che offre un ridosso sicuro, ma significherebbe perdere tutte quelle miglia che con tanta fatica abbiamo guadagnato contro la bora nei giorni scorsi. No, indietro non si torna. Davanti a noi c’è un’isola deserta, ma significherebbe galoppare ancora contro il mare. A ovest c'è la minuscola isola di Susak. Sfoglio il 777 tenendolo fermo col piede sulla panca. Il suo porto è completamente spalancato alla bora e ammesso di trovarvi ormeggio, non voglio certo fare nuovamente la fine del topo come nella baia del Neverin, un paio di giorni fa. No, l'esperienza insegna e continuo a spulciare il 777. In effetti però quella sembra essere la soluzione più logica, se non vogliamo tornare fino ad Ilovik. Dietro all'isola è segnata una baia deserta che offre riparo. Potrebbe essere un buon ridosso per nascondersi qualche ora e aspettare l'evolversi degli eventi. Anche Maya non sa più cosa fare con Yanez e lo lascia salire in coperta. Finalmente poggio e dirigo su Susak a ovest leggermente a poppavia.
Appena il catamarano prende il vento al lasco, gli scafi si alzano dall'acqua e cominciano a planare velocissimi sul dorso delle onde. Dietro di noi si alzano due scie bianche di spuma e con un colpo secco, sento la traversa di poppa spostarsi e assestarsi diversamente, ora che il mare viene da dietro. Sarà anche normale che le traverse e gli scafi si muovano così tanto, ma non riesco a farci l'abitudine e ogni volta guardo con apprensione le legature che tengono assemblata la barca. Intanto la velocità aumenta e mi viene da pensare che le vele sono cazzate come fossimo di bolina. Certo, il vento relativo, certo, anche questo è normale, ma non riesco a farci l'abitudine. Quando l'onda ci solleva, le prue si infilano ripide dentro al mare, ma non sembra che la barca accenni mai a voler fare la capriola. Neppure uno spruzzo entra in barca e mai ho pensato fosse il caso di ridurre tela, anche se il GPS oramai ha superato i 10 nodi. Yanez giocherella tra le mie gambe ho il braccio indolenzito, a tenere il timone. Sono molto teso, ma allo stesso tempo so di aver fatto ogni cosa come si deve e sorrido soddisfatto della mia barca e del suo equipaggio. Susak si avvicina come un bolide e dietro questo curioso mucchio di sabbia perso in mezzo al mare, si perde l'orizzonte sconfinato di acqua e cielo. È come se precipitassimo dalla cima di una montagna velocissimi verso l'oblio dell'infinito, sotto e davanti di noi. Losinj è la montagna e Susak è l'ultimo appiglio, prima del vuoto. Se ci dovesse sfuggire, saremmo perduti. Mentre rido tra me e me per questi pensieri, Violanda sporge la testa dal suo gavone e vomita in una fessura del quadrato. Mia moglie era nuovamente in cinta, anche se ancora non lo sapevamo e la corsa tra i frangenti, chiusa in cabina, non ha giovato granché alla nausee che da qualche giorno le rovinano la colazione. Per fortuna la distanza che ci separa a Susak è colmata in un istante e facendo la barba alla sua propagine settentrionale, poggio ulteriormente per scendere in cerca di questa baia, che si apre subito dopo. Davanti a noi una spiaggia ciottolosa chiusa tra alti canneti e scogliere di arenaria. Alle nostre spalle, l'infinito mare. Non ci sono più isole tra noi e l'orizzonte.
Come sempre il contrasto tra la calma offerta dal ridosso e il mugghiare del mare e del vento è sorprendente. Soprattutto è il silenzio improvviso che stupisce. Non appena entriamo nella baia, il vento cede d’improvviso e il mare non frulla più sotto le nostre chiglie. Le vele pendono flosce e silenziose e le ammaino in fretta. Getto l'ancora e arrivo a toccare la spiaggia con le prue. Poi come di consueto scendo a terra per tirare una cima tra i relitti che il mare ha accatastato sulla spiaggia. È molto presto, non sono ancora le nove, ma Emir deve fare il sonnellino post tetta. Lasciamo la mamma e il poppante in barca, il sole non ha ancora scavalcato la scogliera che chiude la baia e l'ombra è fin troppa fresca. Con Maya e Yanez, ce ne andiamo ad esplorare la spiaggia e gli scogli che la contornano. Susak è un'isola particolarissima. Si tratta in pratica di un blocco di sabbia in mezzo al mare e nell'Adriatico, sono solo due le isole di questo tipo che sono state colonizzate. Mentre Maya e Yanez torturano granchietti e pesciolini intrappolati nelle pozze d'acqua della scogliera, mi perdo ad osservare i canneti che hanno sostituito le vigne per cui l'isola era famosa. I veneziani la chiamavano Sansego e sembra che la bellezza delle donne di quest’isola facesse perdere la testa ai marinai che vi approdavano. Chissà come doveva essere la vita di un bambino che nasceva in questo lembo di terra, che sembra il mare possa inghiottire da un momento all'altro. Da sempre sono stato affascinato dall'identità delle piccole isole, dal loro ritmo scandito dal mormorare del mare e dall'orario dei traghetti che portano turisti, ma anche generi di prima necessità, dove è onnipresente il respiro delle onde e il profumo del sale e la vita è condizionata dai capricci del vento e del mare. Mi vengono in mente le parole del vecchio pescatore di Ist, che mi raccontava come si viveva su questi scogli. Mi siedo a riflettere e gli occhi si perdono dell'infinito orizzonte davanti a noi, che raramente siamo abituati a vedere nelle nostre crociere costiere, cabotando da isola a isola.
Il tempo fugge, Emir si è svegliato e urge un consiglio di guerra. Siamo in giro per piccole isole da molti giorni e la cambusa si è ridotta notevolmente, scarseggia la benzina, ma soprattutto avremo presto bisogno di acqua. Proviamo a raggiungere a piedi l'abitato di Susak, ma scavalcare la collina che ci separa dal paese è impossibile e bisognerebbe farsi strada tra una giungla di canneti. Violanda si costruisce una fascia per tenere Emir in grembo e proviamo ad aggirare a piedi l’isola, lungo una traccia che circoscrive il promontorio, ma arrivati fuori dalla baia, la bora ci investe e non è proprio il momento di rischiare un'otite o qualche altro malanno. Torniamo alla barca e decidiamo di aspettare il pomeriggio per vedere se il mare ci permette di raggiungere Unje. Nuotiamo, peschiamo, costruiamo una capanna sulla spiaggia, ma Maya continua a chiedere quando partiamo, quando torniamo, cosa ci facciamo ancora lì. Le rispondo male, perché anch'io sono molto stanco e l'impazienza della bambina mi innervosisce. So che non è facile per una dodicenne trascorrere un periodo così lungo da sola, senza un gelato, un giro per le bancarelle, un gioco. La scorta di lettura è finita da tempo e per la terza volta le ho visto tra le mani lo stesso libro. Per lei è molto difficile perdersi nell'orizzonte a fantasticare sulla vita degli abitanti dell'isola di 100 anni fa e spesso non riesce a partecipare alle conversazioni degli adulti. Me ne rendo conto, ma ora non so proprio come aiutarla.
Al pomeriggio, decidiamo che le condizioni si sono calmate e salpiamo in direzione Unje. Fuori dalla baia la bora soffia con minore intensità, ma non mi permette di fare rotta verso la nostra destinazione e il mare non si è ancora calmato. Risalgo il vento quanto più posso sul bordo buono, poi quando mi sembra che ci siamo allontanati troppo dalla nostra rotta, ammaino le vele e accendo il motore, che lentamente ci spinge verso la nostra destinazione, salendo e scendendo dalle onde che vengono contro di noi. Il fiocco, raccolto sulla delfiniera di prua nel suo sacco, si è spostato a causa del continuo beccheggio della barca che spancia sul mare dopo aver risalito l'onda. Consegno il timone a Maya e vado a prua per sistemarlo meglio. Con un piede sulle terrazze e uno sulla delfiniera, mi appendo allo strallo con una mano per sistemare la sacca del fiocco, ma in quell'istante, la delfiniera cede sotto il mio peso e io mi trovo completamente sbilanciato fuoribordo e non so per quale magia non cado in acqua, ma rimango appeso alla traversa, con una gamba sulla terrazza, quell'altra a penzoloni fuoribordo e lo strallo in mano. Un lampo mi attraversa il cervello: l'albero. Ho sentito l'esclamazione di sorpresa di Violanda e subito dopo il motore che calava improvvisamente i giri. Mi giro e Violanda sta tenendo in piedi l'albero, con tutte e due le mani. Maya è corsa a fermare il motore, come le è stato insegnato e ora tiene Emir.
È evidente che le buriane di questi giorno hanno allentato le sartie e io non ho mai controllato la loro tensione. Mi viene in mente Giuseppe che dopo ogni colpo di vento, passava ogni dettaglio della barca con lo specchietto da dentista, per accertarsi che niente si fosse allentato. Quanto mi vergognerei se mi vedesse ora. Il mio equipaggio invece è davvero efficiente e sento che ormai potremmo affrontare Capo Horn. O quasi.
In un attimo la delfiniera è nuovamente incastrata nella traversa di prua e l'albero al suo posto e noi riprendiamo il mare verso Unje. Il porto del paese non è consigliabile in caso di bora e noi puntiamo verso un profondo fiordo che si apre sul versante opposto dell'isola. C'è un campo di gavitelli che ci permetterà di trascorrere una notte tranquilla. Entrando in rada incrociamo una grossa barca a vela. Io sono seduto sulla tuga, con Yanez accoccolato tra le gambe, Maya sta al timone e Violanda dondola Emir nel suo ovetto, sulla prua opposta alla mia. L'equipaggio della barca ci saluta e il suo comandante si sporge fuoribordo e ci batte le mani. Saluto con un cenno del braccio e mal celato orgoglio da vecchio lupo di mare, mentre Violanda mi guarda e sorride per prendermi in giro.
I vecchi moli da pesca della baia sono tutti occupati dai tender delle numerose barche appese ai gavitelli. Vista l'ora è probabile che siano tutti in paese, a cena. Noi ci leghiamo ad un gavitello vicino agli scogli nella parte opposta della baia. Dobbiamo assolutamente andare in paese. La sentina è quasi vuota, il gas della cucina è finito e soprattutto sono tre giorni e due notti che l'equipaggio abbandona la barca solo per qualche breve passeggiata. Con qualche difficoltà, con l'acqua alla vita, traghetto l'equipaggio sugli scogli della riva. Il tender è ancora in possesso di Sergio e io non volevo spendere inutilmente soldi, per comprare uno straccio di canotto solo per un paio di giorni di crociera, massimo tre. Violanda elogia con solerzia la mia parsimonia. Ci avviamo lungo la costa, ma i cespugli e gli scogli rendono molto difficile la passeggiata. C'è un breve canale e salto in acqua con Yanez sulle spalle, per attraversarlo, ma come tocco il fondo, sprofondo nel fango fino al polpaccio. È proprio il fondo del fiordo e un ruscelletto ha creato una specie di sabbia mobile che ingoia senza possibilità di recupero le mie crocs. Sono le uniche scarpe che posseggo in barca e ora sono sommerse per sempre nella palude fangosa. D'altronde dovevamo stare in giro solo un paio di giorni, massimo tre. È quasi buio e non resta nulla da fare. Si torna in barca. Rifacciamo al contrario il traghetto di qualche minuto prima e poi in coperta facciamo il briefing. Violanda scende in cucina e fa l'inventario della cambusa: abbiamo viveri d'emergenza e di fame non si muore. L'acqua però scarseggia e la scorta si è ridotta ad un'unica bottiglia. In sentina c'è ancora la tanica di emergenza, ma mi fa paura intaccare quell'ultima risorsa. Quella tanica rappresenta l’ultima possibilità per l’equipaggio e per scaramanzia non la voglio toccare, tanto più che se va come i giorni passati, non è escluso che dobbiamo trovare rifugio in qualche isola davvero disabitata e allora sì, che quella tanica diventerebbe importante.
Violanda si affaccia dall'oblo della cucina:
- ...e abbiamo finito la birra.
So che scherza. Negli ultimi giorni la riserva di birra si è drasticamente ridotta fino ad annullarsi, però Violanda, da bravo cambusiere ha sempre nascosto qualche lattina negli angoli più riposti della barca, facendola comparire come un miraggio, nei momenti più drammatici della sete e quella birra tiepida diventava un nettare della provvidenza. È bello riappropriarsi delle felicità semplici e godere anche di dettagli cui nella vita quotidiana non diamo nessuna importanza. So che Violanda scherza, e comparirà dopo poco con una lattina in mano, tra la sorpresa generale.
- ...e 'stavolta non sto scherzando.
La situazione è grave davvero. Bisogna prendere una decisione. Possiamo tranquillamente resistere fino al giorno successivo, e poi con calma andare in paese e rifornire la cambusa, ma se domani mattina vogliamo salpare presto in direzione di Cres, dobbiamo avere autonomia per almeno un altro paio di giorni, come minimo.
Cerco un sacchetto di plastica in cucina, ci avvolgo dentro la maglietta e il portamonete, infilo le pinne e butto in acqua un parabordo, che mi servirà per appenderci la spesa al ritorno. Sto per buttarmi in acqua e Maya mi guarda con le lacrime agli occhi.
- allora noi non veniamo?
Ha la voce supplichevole, ma è calma e scorata. Non è un capriccio, è quasi desolazione. Sono seduto a prua con la punta delle pinne già in acqua e guardo gli occhi azzurri di Maya, arrossati dal sale e dalle lacrime e i suoi capelli biondi scompigliati dal vento.
Ci siamo preoccupati del sole, del vento e del mare. Abbiamo preparato il pronto soccorso pensando a tutte le eventualità che sarebbero potute accadere anche le più remote, stiamo stati attenti che l'alternanza del sonno e della veglia non fosse alterata, abbiamo curato ogni dettaglio della barca in modo che nulla potesse ferire accidentalmente i bambini o farli inciampare, abbiamo fatto in modo che fosse quasi impossibile cadere fuoribordo, ho dormito sulle panche del pozzetto per essere sicuro che nella notte nessuno potesse alzarsi e cadere in acqua, ma ci siamo dimenticati della cosa più importante, quella fondamentale.
Andiamo in barca per divertirci, in vacanza, per svago.
Ci siamo dimenticati che Maya è ancora una bambina, nonostante i suoi dodici anni appena compiuti. Contrariamente a quello che pensavamo, con gli altri due mostri non ci sono stati problemi. Certo, siamo stati fortunati, ma la noia o la monotonia di un trasferimento, si vince anche con una filastrocca o giocando ai pirati. Per Maya è diverso. Maya da giorni non gioca con una sua coetanea e la barca o le spiagge deserte che abbiamo visitato in questi giorni, sono diventate quasi una prigione. Maya è brava e capisce il suo ruolo di nostromo e ci aiuta spesso con i bambini più piccoli, però oggi ci teneva tanto ad una passeggiata sul lungomare, ad un gelato o a qualche inutile sciocchezza ad una bancarella.
- ti prometto che ti porto una sorpresa.
Le accarezzo i capelli e poi mi tuffo.
Attraverso il fiordo a nuoto, trascinando il parabordo e tenendo alta la borsa di plastica. Sbarco ad un molo e nascondo pinne e parabordo. Mi avvio lungo una mulattiera di ghiaia. Sono scalzo, ma oramai come ogni anno, dopo qualche settimana in barca, la pianta del piede è diventata come cuoio. Anche le mani sono ruvide e leggermente gonfie e le scotte e le drizze hanno indurito la pelle dei palmi, che tira alla radice delle dita quando le distendo. Lungo la stradina in salita, che scavalca l'altura della piccola isola, supero sbuffando, equipaggi eleganti che vanno al passeggio e mi guardano come se fossi un forsennato. Raggiungo la cima della collina e comincio a scendere, c'è ancora un po' di luce e con sollievo, sotto le dita dei piedi, sento il cemento liscio delle prime vie del paese.
L'unico negozio dell'isola è una stanza in cui sono ammassate casse di acqua, di birra e scatolame vario e dietro un banco sono in bella mostra qualche frutto, pane e generi di ogni tipo: dal rastrello al dentifricio. In agosto la popolazione di Unje decuplica e il traghetto è l'unica via di rifornimento per gli isolani. Prendo le ultime otto bottiglie di acqua rimaste in negozio, sorrido pensando allo scorbuto del mio equipaggio e compero qualche pera per Emir e qualche arancia, vitamine importanti che, considerando il prezzo, credo siano state portate a nuoto nell'isola, una per una. Poi qualche scatoletta, cioccolata per i bambini, pane e birra, per Violanda e per me. Mi chiedo se riuscirò a portare tutto, ma sono talmente determinato che credo sarei in grado di spostare l'intera isola se solo servisse a portare conforto al mio equipaggio. Una sporta in una mano e la confezione di bottiglie di plastica nell'altra e imbocco il ripido viottolo che porta alla baia dove siamo ormeggiati. Con mia sorpresa, non sono affaticato, il torace si alza e si abbassa come un mantice, ma non sono affannato e le braccia reggono il peso della spesa senza sforzo eccessivo. Sono anni che non provavo più questo vigore nel fisico. Sono sempre stato uno sportivo, abituato a camminare per lunghe ore e ad arrampicarmi sulla cime delle montagne, ma da qualche anno oramai, da quando sono nati i bambini, ho praticato sempre meno sport e mi sono appesantito, tanto da faticare a salire le scale. Questi giorni in barca hanno trasformato il mio corpo. L'addome si è asciugato e i muscoli sono tornati a farsi vivi, tra la carne flaccida e penzolante delle braccia e del torace. Salgo quasi di corsa in cima alla collina, mi fermo per un attimo e appoggio le borse. Alle mie spalle, il sole si tuffa direttamente nel mare. È uno spettacolo raro e per qualche istante mi godo il friggere degli ultimi raggi nell'orizzonte, pulito dalla bora e libero da altri ostacoli, ma non mi posso fermare troppo. A nord, lo stretto canale tra Cres e la terraferma, sembra ancora più minaccioso, nel buio della sera. Scendo fino alla nostra baia e considerato la quantità di spesa decido di prendere in prestito uno dei molti tender ormeggiati ai moli di pietra. In barca tutti si stupiscono del mio arrivo e come San Nicolò distribuisco le sorprese, poi, riportato il tender al suo posto, mi tuffo nell'acqua nera come inchiostro e raggiungo la barca dove i bambini mangiano cioccolata e Violanda mi aspetta con la birra. Mi stendo su una panca, avvolto da un asciugamano. Sono sveglio dalle quattro di stamattina, mi bruciano le piante dei piedi, abbiamo rischiato di disalberare, abbiamo tentato di circoscrivere a piedi un'isola, abbiamo combattuto contro la bora per tutto il giorno e prima di cena ho colmato la distanza tra noi e il paese, in parte a nuoto, in parte a remi, in parte a piedi scalzi. Una specie di triathlon, giusto per non farsi mancare nulla.
Se qualcuno mi viene a dire che la barca è rilassante lo annego.

Durante la notte sono costretto a smontare la tenda, perché la bora è girata a maestrale e si incunea nel varco della nostra baia, facendo tintinnare le drizze contro l'albero. Alle quattro tento lo stesso di prendere il mare, ma appena fuori dalla baia, le onde ci rispediscono a cuccia. Stavolta ormeggio ad uno dei moli di pietra, così sarà più agevole scendere a terra. Poi, tutto l'equipaggio si prepara e ci incamminiamo verso il paese, approfittando del fresco della mattina. Mentre la famiglia fa colazione in un locale sul porto, torno nuovamente in barca per portarla al molo di Unje, libero e finalmente ridossato. Abbiamo poca benzina e copro il periplo dell'isola a vela. Sono contento di essere solo in barca, mentre gli schizzi delle onde bagnano la coperta e le prue si arrampicano su per le onde ripide del Quarnaro, per poi cadere pesantemente spruzzando acqua tutto intorno. Ormeggiato Tomtom, raggiungo Violanda che ha trovato ombra sotto un boschetto al limite della spiaggia. Ha fatto la spesa alla boutique alimentare del paese e organizziamo un picnic all'ombra degli alberi. Il vento rinfresca l'aria ed è davvero piacevole starsene stravaccati contro le barche da pesca rovesciate a guardare il mare che passa dal blu intenso fuori dalla baia, dove il vento schiaffeggia il mare, al celeste della spiaggia dove le onde rotolano sulla sabbia. Yanez oramai è entrato nel ritmo zingaro della crociera e per una volta non oppone difficoltà ad addormentarsi su un asciugamano sotto i pini, distratto dalle cicale che raccontano alle onde la loro millenaria filastrocca. Violanda ha fatto amicizia con una garrula signora che da qualche giorno ha compiuto 90 anni. Mentre le cicale contendono il rumore delle onde, socchiudo gli occhi e penso alla vecchia signora che chiacchiera vivace con Violanda e scherza con Emir. Certo che la vita dell'isola deve fare proprio bene.
Il vento è sempre meno violento ed è quasi diventato una piacevole brezza. Maya cerca sassi bucati sulla spiaggia, per farsene una collana. Socchiudo gli occhi e faccio compagnia a Yanez, steso sotto i pini, col vento che accarezza la pelle e le onde che rispondono alle cicale la loro millenaria filastrocca.
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 Oggetto del messaggio: Re: i pigrotti del tiki: crociera 2013 parte V
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Che sei bravo a scrivere te l'ho già detto.
Quando avremo l'onore?
L.


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 Oggetto del messaggio: Re: i pigrotti del tiki: crociera 2013 parte V
MessaggioInviato: 14/11/2013, 11:43 
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:oops: da te è un complimento che accetto ben volentieri

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 Oggetto del messaggio: Re: i pigrotti del tiki: crociera 2013 parte V
MessaggioInviato: 15/11/2013, 10:13 
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Il fiordo di Unje


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