Marinai di Terraferma

Sono giornate uggiose, i campi che traboccano d’acqua, nell’aria la prima nebbia umida cancella l’orizzonte. Di notte gli alberi che storniscono strapazzati dal vento e la pioggia fragorosa sul selciato riportano ad un vago ricordo di onde contro le scogliere.
C’è poco da fare l’estate e le gita in mare, il cielo azzurro la calura e l’arsura che seccano la terra e le piante: profumando l’aria svaniscono piano piano e oziosamente mi muovo in quel misero spazio restato libero nel garage. Sposto assi scatole, sacchi, oggetti: un proposito di riordino che è anche censimento delle cose accatastate da un po’ di tempo. Riemerge così., improvvisamente il sacco di tela lisa blu mare della rete di mio padre: è una sferzata per il cervello assopito, una contrazione che fa inghiottire l’aria; questo oggetto era scomparso completamente dai miei pensieri.
E’ un giacchio, un rezzaglio, un iacco: una rete dalle origini antiche per una pesca che diventa caccia primitiva. E’di refe chiara, mentre lo estraggo dal sacco avverto l’acuto odore dei lenzuoli della nonna: un misto di lino e stantio; la ruvidezza delle maglie sulle mani fa rivivere il ricordo delle trame dure dei lenzuoli sul corpo. Afferro prima la corda piatta: come una luga treccia sottile attaccata alla rete: di forma circolare a maglie piccole, circa 15mt di diametro; sul perimetro, in un nastro intrecciato di grossa sezione, sono infilati i piombi. Il nastro è legato alla maglia superiore con dei treccioli che servono a fare borsa di contenimento quando si recupera la rete. Non l’ho mai usato, l’ho custodito , dimenticato, ritrovato.
Nellla bassa stagione, quando la maggior parte dei proprietari si sono apparentemente dimenticati delle loro barche che adesso giacciono su invasi e tacchi di legno ai bordi del fiume, l’acqua scorre senza onde verso la foce: solo qualche increspatura al cento, sopra la secca. La in quella direzione è facile vedere una brucela con due uomini a bordo: uno ai remi e l’altro a prua in piadi sul piccolo ponte con la rete passata a guisa di tabarro sulla spalla e penzolante tra le mani. La piccola barca sembra immobile, il rematore, in piedi, contrasta lo scorrere dell’acqua con i remi: entrambi immersi, mossi con gesti lenti; la barca acqusta un ritmo suo, la rete inizia a pendolare nelle mani dell’altro uomo, i movimenti hanno un unico tempo. Poggiando il piede a contrasto della falchetta e oscillando sulla gambe, l’uomo a prua inizia a ruotare il busto verso la destra del vogatore imprimendo energia al pendolo della rete. Un attimo e la contrazione dell’uomo, ottenuta con la rotazione del busto, si libera lanciando difronte la massa della rete che si distente nell’aria, un leggero rumore, come una manciata di piccoli sassi e la rete si immerge nel fiume.
Seduto su una sedia di ferro, un po’ arrugginita, abbandonata nei pressi della riva dal bar che apre solo nel periodo estivo, ho guardato la piccola barca azzurra riflettere nell’acqua le sagome dei suoi pescatori e a prua la rete chiusa: un triangolo vibrante, bianco nella luce del sole invernale, appeso alla sagola addugliata nelle mani del lanciatore e poi quando a bordo l’uomo drappeggia la rete scutendo e liberando i pesci, tiro fortunato.
Tutto questo mi ricordo mentre fuori, al di là della prua del dinghy un tentetivo di luce solare colora l’asfalto; vorrei raccontare, rivivere, far partecipare ma sono solo: è una delle tante mattine di sabato invernale e la gente si attarda dentro casa.